In preparazione al carnevale, analizziamo la storia di una delle maschere più rappresentative della festa veneziana: la bauta. Si tratta ancora oggi di una delle maschere più celebri e popolari. E’ ancora piuttosto comune intravedere qualcuno che la veste tra le calli e i sestieri di Venezia durante il carnevale.
L’origine della maschera
La bauta compare a Venezia tra il XV e il XVI secolo. Tra tutte le maschere di Venezia era quella che godeva di maggior libertà. Poteva essere indossata anche quando le altre maschere erano bandite: nei giorni di San Marco, dell’Ascensione e per l’elezione di dogi e procuratori.
La sua particolarità consisteva proprio nel poter essere indossata sia durante il Carnevale sia nella vita quotidiana come accessorio per il volto. La maschera, grazie alla sua particolare forma, permetteva di alterare la voce e nascondere il volto e avere l’assoluto anonimato. Inoltre, consentiva anche di mangiare e bere senza preoccuparsi di toglierla.
Non è ancora chiaro da cosa derivi il termine: secondo alcuni storiografi il termine proviene dai singhiozzi spaventati dei bambini che per la prima volta vedevano questa maschera; altri sostengono che l’origine si debba rintracciare in “bava”, parola che nel dialetto veneziano identifica il roccolo di pizzo che avvolgeva la testa sotto il tricorno.
La maschera
La bauta poteva avere varie caratteristiche. Secondo la tradizione venivano realizzate dai mascareri e le loro dimensioni variavano a seconda dei lineamenti del volto, senza tuttavia allontanarsi troppo dal modello originario ,in modo da non rivelare l’identità della persona. Nonostante altri mascheramenti più sfarzosi, nel Settecento divenne la maschera più popolare tra nobili e comuni cittadini. La maschera permetteva assoluta libertà e anonimato a chi la vestiva.
La maschera o “larva” (in latino singnifica fantasma), era inizialmente di colore nero per poi assumere la tradizionale colorazione bianca. Ricopriva quasi interamente il volto, lasciando visibile il mento e gli occhi, lasciati scoperti da due fessure. Si caratterizzava poi per gli zigomi sporgenti e la forma allungata della parte sottostante il naso che assumeva la forma a becco. Il travestimento era poi accompagnato dallo xendal (roccolo di pizzo), dal tricorno e dal tabarro, lungo mantello scuro tradizionale.
La bauta nell’arte: da Goldoni a Canaletto
Carlo Goldoni, celebre commediografo veneziano, inserì nelle sue rappresentazioni anche attori mascherati a partire dalla commedia “La vedovo scaltra” del 1748. Personaggi in bauta compaiono anche nel “Don Giovanni” di Mozart, forse ricordo del librettista dell’opera, Lorenzo da Ponte, che era vissuto a Venezia. Compare anche nelle opere di importanti maestri veneziani, tra cui Pietro Longhi, il Canaletto, Giovanni Domenico Tiepolo e Francesco Guardi.
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