L’operaio standard di Porto Marghera
Paolo Della Vecchia: “Tu hai iniziato, come tanti altri tuoi colleghi, giovanissimo a lavorare come apprendista a soli 14 anni. Scrivi nel tuo libro Porto Marghera: una vita “Con i 18 anni appena compiuti assumevo anche l’aspetto di quelle migliaia di lavoratori di Porto Marghera ai quali desideravo appartenere“. Ma qual era questo aspetto?”
Lando Arbizzani: “Mi riferivo al tipico lavoratore di Porto Marghera, il quale andava a lavorare in bicicletta con la borsa appesa al ferro centrale della bici, dalla quale sporgeva la bottiglia del vino col tappo a leva. Aveva un basco e d’inverno, a volte usava, le manopole fatte di pelle di coniglio perché era freddo. Questo era quello al quale io ambivo. Perché prima soffrivo un po’ a fare l’apprendista, che era un periodo di apprendimento del mestiere, ma verso i 17 anni, già aveva acquisito una certa autonomia. In più ero desideroso proprio di diventare operaio. E per me l’operaio era quello: bici, basco in testa e tutta quella marea di biciclette che andava verso le zone del lavoro”.
La routine mattiniera degli operai
Paolo Della Vecchia: “Eravamo negli anni del dopoguerra, i primi anni 50. L’Italia era tutta da ricostruire. Ci puoi descrivere, quindi, come erano le vie di Marghera, quelle che tu hai corso con la tua bicicletta, con la tua sportina, con le bevande e il cibo per la pausa pranzo. A quell’epoca, cosa avveniva, varcata la soglia delle portinerie, incamminandoti verso le baracche delle imprese, per indossare questa tuta blu a cui tu tanto aspiravi?”
Lando Arbizzani: “Per le strade c’era tutto uno sciamare di bici. L’orario era dalle 7:00 alle 7:15 della mattina. Già era avvenuto l’ingresso del turno, perché i turni continui prevedevano 6-14, 14-22, 22-6. Tutte queste bici, poi, arrivavano agli ingressi. Nel caso del petrolchimico, dove avevo iniziato io con un’impresa appaltatrice, era l’ingresso 1, vicino all’ex San Marco.
C’erano delle tettoie dove migliaia di bici rimanevano appese ai ganci, verticalmente. Tanto è vero che poi, nel ’58, c’è stata una grande nevicata, al punto che son crollate tutte le tettoie, con un disastro per le bici. Allora noi protestavamo verso i nostri capi in cantiere, ma le aziende hanno detto “Son fatti vostri”. Così ci abbiamo rimesso tutti la bici e abbiamo dovuto arrangiarci come potevamo.
Una volta entrati, noi non avevamo l’iter dei dipendenti diretti, che avevano la pagelliera. Noi dovevamo, a piedi, raggiungere i cantieri, che erano in una zona decentrata. Lì si doveva timbrare la pagella, ovviamente, e poi cambiarsi. La baracca spogliatoio aveva dei chiodi lunghi, dove appendevamo i nostri vestiti e tiravamo giù la tuta. Questo era un po’ il ritmo”.
Difficoltà pure ad ora di pranzo
“Per il pranzo a mezzogiorno, non avevamo la possibilità di entrare nella mensa, neanche con il nostro pentolino del cibo. Ci si doveva arrangiare, seduti su qualche gradino lungo la strada e non era facile, perché d’inverno magari pioveva, c’era nebbia e freddo. Nella zona del petrolchimico 1, c’era un reparto che era micidiale. Dove facevano la trielina, a volte uscivano delle fughe di gas tetracloretano. Quel gas era molto pesante, quindi, stava a livello del suolo. Una volta che arrivava vicino a dove uno stava mangiando, provocava l’immediata espulsione di quello che si aveva in bocca. Bisognava alzarsi, andar via e poi si riprendeva il pranzo con molto disgusto.
Era una cosa tremenda. Questo era un po’ l’esempio delle difficoltà ambientali, che avevamo noi delle imprese.”
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