Oggi l’ospite di Maria Stella Donà a La Voce della Città Metropolitana è Pietro Famengo, uno chef che ha anche partecipato alla Prova del cuoco nel 2014. Il giovane cuoco ha appena aperto un proprio locale a Noale ed è l’esempio di un ragazzo che si è dato da fare.
Dalla scuola alberghiera “G. Maffoli” di Castelfranco, non si è mai fermato. Nemmeno la situazione Covid è riuscita a rallentarlo. Anzi, appena sono finite le restrizioni, ha potuto aprire un ristorante tutto suo nel locale di famiglia Corte di Villa Rossi, a Noale.
La presentazione di Pietro Famengo
“La mia storia è nata tanti anni fa. La mia famiglia ha acquistato lo stabile di Villa Rossi, dove abbiamo sistemato una parte per farci un ristorante. 20 anni fa la mia famiglia non sapeva cosa avrei voluto fare da grande.
Di pari passo, è cresciuta la mia passione per la cucina e questo progetto è andato avanti fino ad arrivare all’inaugurazione di questo splendido locale. È una Corte dove una volta risiedeva una fornace storica di Noale”.
Le collaborazioni con i ristoranti stellati ed il rapporto di Pietro Famengo con Marco Valletta
“Marco Valletta è stato il mio primo insegnante vero e proprio, il primo chef con cui ho avuto a che fare. È stata una tappa fondamentale per la mia crescita. Mi ha dato tanto. Sia gioie, sia dolori perché mi ha messo di fronte a sfide importanti, più che altro per farmi capire che è un lavoro difficile, di sacrificio, però che in futuro può dare molte soddisfazioni”.
Perché il lavoro di cuoco è difficile? Organizzare una cucina non è come cucinare a casa
“Certo, il ristornate è una cosa e la cucina di casa è un’altra. Nel ristorante ci sono mille variabili. Non c’è da preparare soltanto una pasta. Ci sono da preparare 4 piatti di pasta che devono uscire nello stesso momento, andare allo stesso tavolo, avere la stessa temperatura ed essere fatti tutti nel modo corretto.
È tutto un altro mestiere rispetto a quello che si vede in televisione. La cucina è qualcosa che deve venire da dentro, dal cuore. Bisogna metterci tanta dedizione e tanta passione. È un lavoro che dà tante soddisfazioni. Bisogna crederci fino in fondo”.
C’è anche una distinzione da fare tra cucina e cucina. Nei ristornanti stellati si dedica del tempo anche alla decorazione del piatto
“Vero! Io ho provato un po’ tutti i tipi di cucina. Sono passato da posti in cui dovevamo servire 300 coperti nel giro di un’ora a cucine in cui ne dovevamo servire 30, ma in tre ore. Si tratta di due realtà completamente differenti. Sono sempre cucine, stiamo sempre parlando di ristorazione, ma in modi diversi.
Una è di qualità, mentre l’altra può comunque esserlo, ma punta di più ai numeri. Il ristorante stellato è sempre alla ricerca della perfezione. Giustamente, quando si parla di numeri, di fare 200 paste in poco tempo, la qualità e la perfezione vengono un po’ a mancare”.
Che tipo di tecnica le ha insegnato Marco Valletta?
“Molte volte la gente mi chiede qual è il mio piatto forte o quali sono i segreti per un buon piatto. Il segreto di un piatto è conoscere la materia. La cucina è fatta soprattutto di legami fisici. Bisogna studiare che cosa succede all’interno dell’alimento. Io posso dirle la temperatura del nucleo della Terra, ma non so che temperatura ha il cuore di un soufflé appena messo a cuocere in forno. Quindi bisogna studiare, bisogna un po’ inventarsi. Valletta mi ha insegnato ad usare la testa in cucina.
È quello che cambia le cose. Che differenza c’è tra una pasta da fare ripiena ed una usata per fare, ad esempio, una tagliatella? Perché da una parte in una ricetta si mette tutto l’uovo, mentre in altre solo il tuorlo? Bisogna capire il perché. Questo è il segreto delle ricette”.
Pietro Famengo, cosa le è rimasto del passaggio nei ristoranti stellati? Che clima c’è nelle cucine di questi locali?
“Diciamo che in ogni ristorante stellato ognuno è un po’ a sé. Ad esempio, in alcuni ho trovato molta tensione e molta competizione perché siamo tutti giovani e bisogna farsi vedere. Tutti vogliono venire fuori dalla massa, quindi ci sono molta competizione e molta guerra tra i fornelli.
Bisogna far vedere che siamo migliori rispetto agli altri, sennò rimaniamo nella media. In altri ristoranti, invece, ho trovato molta più armonia e molto più dialogo. Sono i posti che mi sono rimasti un po’ più nel cuore e dove si riesce un po’ più ad imparare, mettiamola così”.
Lo chef di punta cosa fa? Si limita a dare indicazioni o prepara lui stesso dei piatti?
“Dipende. Ci sono chef che fanno solo 3 ore al giorno, entrano in cucina, assaggiano le salse, controllano se la tua postazione è pulita e se hai fatto bene il tuo lavoro. Ti possono rimproverare e poche volte ti elogiano”.
Quali sono i piatti più complessi di cui ha assistito la preparazione?
“Ce n’è stato uno molto interessante al Met, di Corrado Fasolato. Era un germano cacciato in un campo di ciliegie. La lavorazione era molto complessa. Si andavano a ricreare perfino le sfere dei pallini del fucile con delle gelatine, dei coloranti neri e argentati che richiamavano la polvere da sparo. Era un piatto decisamente fantascientifico e strano da vedere”.
Forse ricorda un po’ i piatti rinascimentali, no?
“Sì, assolutamente. Uno di quei piatti che doveva sembrare qualcosa che andava a snaturare l’elemento principale”.
Pietro Famengo, qual è il piatto dal gusto che le è piaciuto di più?
“È difficile scegliere un piatto”.
Qual è il piatto più buono che si può degustare nella sua Corte di Villa Rossi?
“Vado molto fiero del bisato sull’ara. È un piatto della tradizione muranese. Si tratta di un’anguilla cotta come una volta, come nella fornace dei maestri vetrai muranesi. È ricoperta di alloro e servita con una semplice insalatina degli orti di Cavallino. È condita all’aceto e ha della polenta di mais bianco perla fritta.
Questo è un piatto semplice che mi tiene molto legato a tutti i percorsi che ho fatto a Venezia, a tutti i ristoranti, a tutti gli anni che ho passato lì. Inoltre, mi ricorda molto la mia infanzia, quando si mangiava l’anguilla arrostita alla griglia”.
Parlando del territorio del miranese e di Noale, ci sono dei piatti della zona che vale la pena riproporre oggi?
“In questo locale che abbiamo aperto, io sto cercando di ritornare ai cibi di una volta. Ricordo che, durante l’infanzia, mio nonno mi preparava la frittatina con le cipolle quando tornavo a casa di pomeriggio. Quando era stagione, c’erano queste cipolline semplici, novelle che lui affettava alla grossolana. Poi buttava su due uova appena prese dal pollaio. Quindi sì, ci sono dei piatti.
Per esempio, c’è l’oca. Mirano è famosa per il gioco dell’oca, quindi c’è una tradizione che ruota attorno a questo animale. Noi, a Noale, non abbiamo un piatto famoso. Abbiamo piatti medievali più che altro. Siamo famosi per la rocca di Noale. Quindi qualcosa si può tirare fuori da lì”.
Il futuro va sempre più verso la riduzione della carne e della cacciagione andando di più verso gli insetti. Lei come vede il futuro della cucina?
“Lo vedo come un ritorno al passato. Molti lo vedono indirizzato verso il futuro, quindi con insetti e proteine animali create in laboratorio. Io, invece, lo vedo come un ritorno alle cose semplici e fatte bene, come una volta. Quindi consisterebbe nel cercare l’allevatore che alleva bene il vitello, solo italiano, nel modo giusto, senza insilati o alimenti particolari”.
Pietro Famengo, lei sa che gli allevamenti sono molto inquinanti, no?
“Lo so, però ho visto molte realtà in cui si riesce a creare un percorso biodinamico, dove anche l’inquinamento viene usato e sfruttato per creare energia elettrica”.